lunedì 30 dicembre 2019

Alla ricerca della vallonea perduta

Percorrendo la provinciale Tricase-tricase porto, nel Salento d’Italia ci si può fermare sotto la formidabile Quercia Vallonea (quercus aegilops) meglio conosciuta come l’albero dei “cento cavalieri” per respirare un istante il profumo dei suoi settecento anelli di storia prima di giungere e ammirare le vicine scogliere d’oriente.

Una pianta davvero molto bella e incomparabile che deve il suo nome al suo vissuto storico che traspira di partenze crociate, occupazioni, battaglie, bivacchi e ripari comuni.

Il tronco ha un perimetro di oltre quattro metri e le sue cime che si levano oltre i 15 protendono rami e fronde su un triangolo di superficie di oltre 20 mq coprendo completamente il tetto di una antica pajara (trullo).

Questa quercia vallonea è chiamata dagli abitanti del luogo “falamida” (dal grecanico) e fu introdotta nella penisola salentina intorno al secolo X e XI, periodo in cui i monaci Basiliani per sfuggire alle persecuzioni dell’impero ottomano si trasferirono nel Salento (di cui una comunità importante si stabilì lungo il fiume Idro ad Otranto).

In particolare, si narra, infatti, che i leggendari monaci, costretti a fuggire dal sultano di Costantinopoli, dalla Macedonia, attraversarono l’Adriatico, portando nelle stive dei loro velieri sacchi di ghiande dal sapore dolciastro simile alle castagne per affrontare il duro viaggio.
L’approdo di tali comunità corrispose perciò alla semina e lo sviluppo dei querceti.

Con la germinazione delle ghiande, ricche di tannino, rinvigorì nel salento anche l’arte di conciare le pelli. Le sostanze tanniche estratte dalle mitiche ghiande a base grossa, le cosidette “gadde seccate al sole e polverizzate venivano utilizzate dai mastri tintori ”gallaj” per conciare le pelli (ngaddare).

L’arte della concia delle pelli detta anche del “pelacane”, (pare si utilizzasse la pelle del cane...ma non è certo), fu introdotta dai popoli arabi intorno all’anno mille.

Fu in seguito, perfezionata dagli abitanti e fu tipizzata con ingredienti come la “sentina” o morchia delle olive e dai trattamenti a base di essenza di bacche di lentisco (pistacea lentiscus) o di mirto ( mirtus comunis) delle rasenti macchie.

Lungo i profili della scogliera tricasina, sono ancora visibili i “calcinai”, cioè le vasche dove i pelacaj candeggiavano con latte di calce spenta le pelli e le tonificavano con sale marino sfruttando flussi e riflussi delle maree.

La pelle turca o “marocchino” come veniva chiamato il frutto della fiorente attività divenne una materia d’ alto pregio per rilegare libri o ornare monili.

La chiusura del porto e l’avvento delle moderne tecniche di estrazione dei tannini ferirono in seguito, gli artigiani tintori e si affievolì la coltivazione della quercia.

Sulla serra del Mito, affascinante lembo di questa terra fioriscono ancora esemplari di Vallonee da preservare come monumenti e testimoni naturali, ma ancora poco è stato fatto, anche se non sono assenti nei dintorni validi percorsi di ecoturismo.

A Tricase, i GAL (gruppi d’azione locale) sorta di comunità orientate alla promozione del territorio, pianificano eventi culturali che riguardano artigianato, agricoltura sociale e ambiente.

La quercia dei “cento cavalieri” è oggi il simbolo di una passata civiltà produttiva legata alla sua terra, protesa non solo allo scambio mercantile ma anche incuriosita dalla cultura d’ altri popoli.

martedì 24 dicembre 2019

L'albero di Natale: storia di un culto nato ad Otranto?


Il culto degli alberi ha un ruolo importante nelle culture e nelle religioni di tutto il mondo! Esistono su quest’argomento innumerevoli notizie o leggende. Gli alberi entrano in questo modo a pieno titolo tra gli elementi spirituali oggetto di venerazione.

Molti uomini hanno sempre creduto che gli alberi fossero governati da spiriti e divinità: tra i primi furono i greci che adoravano la quercia come dimora di Zeus e la consideravano, come l’ulivo, pianta il cui sacrilego atto di sradicarlo era punito severamente.

Per alcune popolazioni africane, nella creazione del mondo, l’albero è protagonista perché contiene la forza spirituale e materiale di un dio arcaico che si manifesta a tutti gli altri esseri proprio attraverso radici, foglie e rami. È consuetudine per alcuni popoli africani radunarsi sotto la chioma di alberi sacri per prendere decisioni d’interesse collettivo.

L’albero è conoscenza, sopravvivenza e nutrimento per ogni popolo. Il legame con gli alberi era per i Celti così forte tanto che si sentivano parte di essi. Per questi popoli, l’albero era il collegamento tra terra e cielo, un riferimento cosmico che appellava perfino i cicli lunari, i luoghi e le famiglie.

Quando le missioni di altre religioni iniziarono la loro opera di conversione su questi popoli, in nome di decisioni supreme, per impedire il perdurare dei loro culti arborei, rasero al suolo le loro foreste sacre. Si può facilmente immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, a coloro che, in segno di venerazione portavano offerte agli alberi o chiedevano protezione per i propri familiari o per i propri beni.

Singolare è la storia di San Martino vescovo, che con il grado di difensore di tali editti, si fece legare a un immenso pino da abbattere per sostenere e comprovare la virtù della sua fede alle popolazioni pagane; dopo il suo segno di croce, l’albero cadde graziandolo e il miracolo favorì le conversioni.

Le storie di alberi tagliati e di proclami che proibivano i riti pagani si susseguirono in tutta Europa durante tutto il medioevo. Emblematici furono i tagli d’albero eseguiti per sancire la fine o l’inizio di nuove epoche. La storica decisione nel 1188 di Goffredo di Buglione, feudale della prima crociata, di far tagliare un olmo a Gisors alla presenza di due sovrani decretò la fine di un’alleanza e l’inizio di un dissidio. Gli eroici abitanti di Capannori in Toscana salvarono l’ultrasecolare “quercia delle streghe”dalla scure nazista che la gradivano come legname; poi cittadini di ogni luogo in difesa di ulivi, querce, lecci, pini di carattere monumentale da ricorrenti minacce antropiche.

Non esiste simbolo più rappresentativo dell’albero per le festività di Natale. L’alberello del nostro focolare è un singolare documento di fede, certamente assorbito da primitivi simbolismi e antiche tradizioni.

La scelta di un sempreverde per celebrare una nascita, in grado di trasferire il messaggio d’immortalità e di rinnovamento era già diffuso tra i romani che ricorrevano decorando le loro case con coccarde di rami di pino. I druidi (dal gaelico querce) e i vichinghi , invece, per il giorno più breve dell’anno si auspicavano fertilità e rinascita vegetativa addobbavano i loro sacri abeti rossi con diversi frutti.Qui si presenta il confronto dell’albero natalizio con la mitologia nordica dell’albero cosmico detto Yggdrasill, albero invisibile e simbolico fonte della vita, origine della sapienza e dell’immortalità, simile a quello raffigurato nel mosaico del Duomo di Otranto, splendido esempio uscito nel 1165 d.C. per opera del monaco Pantaleone che era riuscito a ramificare natura e mitologia in una delle prime missive ecologiche che il Salento ricordi.
Klimt, L’albero della vita

Anche nella pittura G. Klimt con il suo “albero della vita” rievoca un riferimento alla naturale combinazione tra spirito e materia tramite l’amore e la conoscenza, mentre nella letteratura, H. Hesse, con la sua favola trasforma il protagonista Pictor, giunto nell’Eden, in albero, per descrivere e completare l’uomo con una metafora arborea.

Il termine albero della vita era menzionato nei riferimenti biblici della genesi e nell’apocalisse: “E in mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita, che fa dodici frutti e che porta il suo frutto ogni mese; le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni”. Altri riferimenti si rintracciano sorprendentemente anche tra popoli egizi, assiri, mesopotami nel buddismo, induismo e nella cabalà ebraica.

Da qui potrebbe essere nata la tradizione dell’albero di Natale, che le prime missioni cristiane chiamarono “albero del paradiso” sul quale comparivano mele e ostie come simbolo di redenzione poi nel tempo sostituite da candele, frutta secca, dolci e doni vari.

I sempreverdi più utilizzati sono il peccio, il pino e l’abete, specie incensate dai colori intensi che dovrebbero essere, di rigore, veri e vegeti se si vuol dare significato e continuità all’allegoria cristiana.

Con un albero artificiale, quindi, non si avrebbe alcuna percezione; il senso della ricorrenza sarebbe relegata a effimero consumismo. Agli italiani pare incanti il falso albero, perché assicura la prontezza dell’installazione, risolve le gestioni economiche durante le feste e poi si può usare per più anni. In genere sono fatti in PVC, polietilene, derivati del petrolio, materie, spesso non degradabili, che in futuro dovrebbero finire in discarica.

Gli scandinavi hanno stimato e paragonato i consumi energetici e di produzione tra un albero vero e uno falso (anche utilizzati a lungo termine) dalle stesse forme e dimensioni ed hanno riscontrato che il primo ha un valore etico e ambientale cinque volte maggiore.

Procurarsi un albero vero da un vivaio specializzato rigenera la coltivazione della specie e favorisce l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera durante il suo accrescimento.

È convinzione diffusa che gli alberi di natale provengano da deforestazioni e che ogni anno avvenga uno sterminio di alberelli; grazie ai controlli o alle certificazioni ambientali (Forest Stewardship Council) che garantiscono il rispetto e la conformità tecnica, si può stare tranquilli.

Ovviamente la preferenza di utilizzare alberelli autoctoni, acquistati da vivai locali (km 0), possibilmente a produzione bio, sarebbe una buona scelta e magari, dopo la festività, ripiantare gli stessi in habitat idonei, per contribuire a mitigare le cause della desertificazione.

Allora alla luce di queste considerazioni potremmo confermare che ogni albero, a prescindere dal suo rito, è certamente, un luogo di ricerca e di riflessione, una relazione di valori ed emozioni e di unione tra terra e cielo; ecco perché non dovrebbero essere mai tagliati. Questo potrebbe essere il primo augurio per il Natale.

mercoledì 29 maggio 2019

Una preghiera per l'agricoltura

Come avrebbero fatto gli antichi agricoltori romani a proteggere i loro raccolti senza la provvidenza dei loro Dei? Forse allo stesso modo con cui avrebbero fatto gli antichi egizi, i babilonesi, i celti medievali o i popoli asiatici?

Ai giorni nostri è rimasto ancora, qualche scampolo di rito popolare o una sagretta a km zero dedicata al santo tutore delle messi e della vendemmia. Ancora oggi per ogni seme di rosario, si spera che i giorni diventino più produttivi.C’è un filo non tanto sottile che lega l’agricoltura ai dogmi e ai miracoli. Le intercessioni dirette restituivano pregio e sacralità ai raccolti. Erano le stesse divinità che decidevano la sussistenza delle famiglie.

La siccità o una gelata primaverile sarebbero, quindi, avversità divine, dovute ad una preghiera inespressa? In molte comunità rurali, lì dove si rivelano nuovi pensieri di pace e speranza, l’esigenza di pregare si avverte più forte. Tutto come prima, allora, nulla sembra cambiato.

Come sempre è l’entità femminile che presiede al culto della fertilità. Oggi la si vuol far intendere come il diretto legame con la natura, con gaia, la grande madre. I frutti ottenuti assumono toni sempre più importanti, a volte, così severamente deificati che hai perfino il timore di mangiarli. Sarà questa l’agricoltura della nuova era? Il nuovo ora et labora. Per alcuni potrebbe diventare una sorta di agro-religione.

Chi invece non bada a spese, preghiere e agricolture 2.0, può concedersi ancora il lusso d’irrigare e concimare il proprio orticello se esso manifesta momenti di sviluppo disperato. Per un orticoltore sarebbe una seccatura vedersi lessare i pomodori da un sole impietoso.

Nessuno proibisce di pregare. Nessuno vieta di considerare la dolce preghiera, come una vera e propria pratica agricola; si faceva così nella vecchia Babilonia, tra i popoli assiri, nell’antico Egitto, per adorare le dee protettrici Ishtar e Iside. Non è una novità.

Come un tempo, ci si prostra all’alba e alla luna, ai confini del proprio piccolo podere, per recitare umilmente il proprio personale mantra.




Le preghiere sono ammesse per ogni metodo d’agricoltura, da quello convenzionale a quello naturale, non ci sono disciplinari di produzione che le regolano, le aspirazioni sarebbero comuni, ci sarà sempre un anima semplice che consacrerà il raccolto a qualche nuovo beato.

Tra i popoli celtici dell’Europa centrale con la cultura dei boschi, ci s’intrecciavano miti e leggende. Con i celti, i rituali si riferivano alla natura, fino al giorno in cui furono banditi da altri invasori che portavano un'altra fede.

Un tempo s’invocavano le ninfe delle querce, dei pini, degli ulivi. Per ogni meridiano c’era un nume da venerare. Nel mediterraneo, gli antichi romani furono tra i primi a cominciare con la dea Cerere, ereditandola dalla cultura greca di Demetra.

Cerere si onorava festeggiando dalla seconda decade di aprile fino a fine maggio. I greci, invece, portavano offerte sull’altare di Cibele e di Attis, dio della vegetazione, il figlio generato da Zeus. Vi era una preghiera per ogni divinità se non addirittura un mito per ogni specie coltivata.

È un rito propiziatorio quello che si fa in Salento con il passaggio attraverso le cavità di un ulivo millenario dopo aver fatto un giro completo intorno al suo tronco. Forse questo sarebbe stato la premessa alla certosina raccolta delle olive, quasi come a voler disegnare sulla terra l’alfa della stagione che culminava con quella Croce cristiana incisa sull’entrata di ogni frantoio medievale ipogeo.

Attraverso la pietra forata del tempietto dedicato a San Biagio, tra le campagne della Grecia Salentina le donne sfilano durante la ricorrenza per ingraziarsi fertilità e benessere. Attraverso i menhir eretti in Sardegna e in Puglia, gli antichi popoli avrebbero rimesso alle loro divinità agricole le migliori speranze.

Fermiamoci qui, dove non è più possibile elencare gli smisurati esempi che ho riscontrato tra le campagne visitate. Fermiamoci sulle parole di questa breve preghiera salentina, da recitare ad alta voce, per conciliare il duro lavoro nei campi con un felice raccolto, immaginando per una volta, di essere piccoli semidei di campagna.

Oh Matonna all’annu neu
Me presentu annanti a tie
Nu uardare lu panaru
Picca ranu e picca ulie

Oh Matonna iou te preu
Porta acqua quannu ccrai
Famme stare te signuru
Nnuci preciu e lende uai


Trad. Oh Madonna per il nuovo anno, sarò qui al tuo cospetto, non guardare il mio paniere, ho poco grano e poche olive. Oh Madonna io ti prego, porta pioggia nel futuro, fammi vivere da signore, portaci gioia e toglici i guai
https://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/editoriali/23232-una-preghiera-per-l-agricoltura.htm#


venerdì 15 giugno 2018

La caprificazione e San Vito

frutto di fico

"A Santu itu la fica ole maritu"

"La fica" intesa come frutto in attesa del suo impollinatore. Senza l'impollinatore sarebbe un frutto con minor qualità.

La caprificazione è l’impollinazione dei fiori, ad opera esclusiva di un insetto, la blastofaga (blastophaga senes) della famiglia degli Agaonidi.

E' la femmina fecondata che trasporta il polline dal frutto del fico, dal siconio in cui ha compiuto il suo ciclo, ad un altro siconio scelto per deporre le uova negli ovari dei fiori femminili.

La caprificazione si può anche indurre tramite una pratica che consisteva a favorire alcune varietà gentili di fico appendendo tra le sue foglie, corone di fioroni sottratti da un caprifico contenenti appunto una colonia di blastofaga.

Il periodo migliore per eseguire tale pratica coincide con la seconda decade di giugno, dal giorno della ricorrenza di San Vito Martire.

Il caprifico è la varietà spontanea del fico (Ficus carica var. caprificus) che si ritrova tra la macchia mediterranea, ai bordi di strade e caseggiati abbandonati, le cui infruttescenze simili al fico coltivato non sono commestibili.

sabato 14 aprile 2018

Il lentisco pianta del Mediterraneo

fiori di lentisco
Un arbusto sempreverde della famiglia delle Anacadiaceae classificato con il nome botanico di Pistacia lentiscus L 1753, è il lentisco.

Il frutto è una drupa rossa e ovoidale di circa 5 mm di diametro che matura in inverno. Insieme all’olivastro e al mirto, la pianta, si presenta molto diffusa sulle zone di costa del bacino del Mediterraneo a bassa altitudine tra pascoli cespugliosi e macchie.

Un tempo, l’olio estratto dalle sue drupe, veniva utilizzato anche a scopi alimentari per le sue spiccate qualità aromatiche. Il legname del lentisco è apprezzato in lavori di intarsio per le sue venature rosse.

Le foglie sono ricche di tannini erano un tempo utilizate per la concia delle pelli insieme a quello delle galle della quercia vallonea molto diffusa nel Salento. La resina di lentisco può essere impiegata anche per decori e pitture.

venerdì 16 febbraio 2018

Porto Badisco: l'approdo di Enea


ph di m. ciccarese 
"ci spingiamo innanzi sul mare quando da lungi scorgiamo oscuri colli e il basso lido dell'Italia. 
Le invocate brezze rinforzano, e già più vicino si intravede un porto, e appare un tempio di Minerva su una rocca. I compagni ammainano le vele e volgono a riva le prore. 
Il porto è incurvato ad arco dalla corrente dell'Euro; i suoi moli rocciosi protesi nel mare schiumano di spruzzi salati, e lo nascondono; alti scogli infatti lo cingono con le loro braccia come un doppio muro, e ai nostri occhi il tempio si allontana dalla riva". 
(dall'Eneide di Virgilio)

mercoledì 7 febbraio 2018

La fava di Zollino e la semina esemplare

ph di M. Ciccarese
“Miscare fae e foie” è un modo di dire salentino che si ripresenta quando un dialogo o un commento, tratta argomenti distanti, disarmonici o sconnessi. In realtà, il detto ci riporta a un piatto apprezzato nel salento, appunto la “minescia” (minestra) di cicorie “reste”, selvatiche con le fave verdi o con le “faenette”(fave secche nettate); la prima specialità speziata con le officinali è ottima per l’inizio dell’estate, la seconda rinforzata con il piccante è precisa per marcare il freddo dell’inverno. In entrambi i casi, comunque, l’equilibrio è l’antitesi del mottetto, una sorta di Yin e Yang condito e rinforzato da un sottile filo d’olio extra vergine di oliva.

Le due verdure, pur provenienti da famiglie botaniche differenti si rimescolano magicamente e trovano la loro dovuta benedizione al lato di un buon bicchiere di negroamaro! Sono attimi contadini, bocconi d’ordinaria ruralità, nei luoghi, dove il folclore dichiara più vigore e l’esperienza del cibo povero non rappresenta solo una semplice espressione mediterranea, ma è un continuo effluvio di piaceri.

Zollino è un centro della grecia salentina, area ellefona, forse fondata dai greci di japigia, dove tra un menhir e un altro, si ha sempre il piacere di condividere e discutere a lungo sulla qualità dei suoi prodotti tipici; la città, pur essendo piccola, è ormai diventato il capolinea dei buongustai nomadi.
La tutela della biodiversità nasce quando i suoi residenti intuiscono che la loro terra, per la qualità calcarea che aiuta l’umificazione della sostanza organica, è predisposta alla coltivazione dei legumi; il tessuto del suolo di Zollino è quindi, una certezza che invita alla semina di ciò che restituirà dopo con la raccolta. 

Riprende così, la semina esemplare in una curiosa kermesse di varietà smarrite; essenze riscoperte e trasmesse, conservate con grande cura dagli anziani, dignitosa collezione di semi. 

Dal campo alla tavola, sfilano il pisello nano e la fava, come essenze simboliche di un nuova agricoltura. In particolare, la fava “Cuccia” di Zollino non conta più di cinque semi per baccello, leggermente più grande e schiacciata rispetto alle altre, è capace di ultimare la gara di una lunga cottura senza perdere la sua originalità; il valore dei suoi nutrienti va la di là di ogni dieta se ricca di carboidrati, fibre, vitamina B, proteine, potassio e povera di grassi.

Le terrazze zollinesi, ribattono le “faddare” e le “ piseddrhare”, cespi interi di piante di fave e piselli, raccolti a maggio, tagliati al colletto ed esposti a ciondolare al rovente sole di giugno per riscuoterne un vantaggioso carico per l’inverno.

Oggi si reclama, e non solo per le fave, il diritto di difendere e scambiare le antiche varietà quando sono minacciate da altre più produttive, create per scopi commerciali, varietà che non concedono possibilità di condividere i luoghi originari di produzione. 

Come ricorda Vandana Shiva, nota scienziata ambientalista indiana: "I semi sono la fonte della vita e il primo anello della catena di produzione del cibo, controllare i semi significa poter controllare le nostre vite, il nostro cibo e la nostra libertà”.




pubblicato per Salentoinlinea7 febbraio 2013